Carta, colla, fil di ferro e acqua: questo è lo scarno elenco di quanto serve alla tecnica della cartapesta che in sintesi si basa su due materie fondamentali, la pasta di carta e i fogli di carta incollati e sovrapposti.
L’invenzione di riutilizzare a fini artistici materiali di scarto fu elaborata fin dal tardo Trecento in Toscana e poi diffusa in tutta la Penisola e in Europa. Ne nacque una tecnica tanto economica, veloce e promettente, quanto trascurata dalla storiografia delle arti plastiche perché fondata sulla mescolanza di materiali vili, estranei alla scultura: inizialmente stracci, composti di terra, segatura e, successivamente, carta.
La tecnica della cartapesta vera e propria viene citata per la prima volta dal Vasari nel racconto della vita di Domenico Beccafumi (1486-1551) e del suo monumento semovente in onore di Carlo V. Ma la stessa tecnica, che viene sperimentata in tutto il Rinascimento, ha almeno un precedente illustre. Vasari narra infatti che Iacopo Della Quercia (1371-1438), su richiesta del Comune di Siena, costruì verso la fine del Trecento il monumento funebre per il capitano di ventura Giovanni d’Azzo Ubaldini ricorrendo, per far fronte ai tempi stretti imposti dalla committenza, ad un’inedita materia ricavata da un impasto di stoffe di scarto e terra, plasmata su una struttura di legno e corde, quindi rifinita in superficie.
L’ invenzione di Iacopo, anticipando il conglomerato di carta degli anni successivi, consentì risultati sorprendenti grazie ad una progressiva messa a punto di questa tecnica povera in epoca rinascimentale. Donatello (1386-1466) sperimenta a Firenze l’uso dei fogli di carta incollati e sovrapposti che poi si diffonde in Umbria, nelle Marche e in tutta Italia. Jacopo Sansovino (1486-1570) perfeziona la tecnica a livelli virtuosistici, tali da ottenere grande attenzione fra gli aristocratici e la buona borghesia, mentre nel contempo favorisce l’uso della cartapesta anche per piccole opere devozionali. Ma è in epoca barocca che la cartapesta trova la sua espressione più spettacolare negli “Apparati effimeri” di Gian Lorenzo Bernini (1598-1680), grande protagonista della cultura figurativa del suo tempo, che su committenza di principi e sovrani crea colossali scenografie, le “macchine”, per feste di corte, giochi popolari, spettacoli teatrali.
La tradizione che da tanta storia discende ancora oggi in tutta Italia si articola su registri espressivi diversi, da quello caricaturale e grottesco dei carri del Carnevale di Viareggio, di Putignano, di Acireale, a quello più raffinato delle maschere del Carnevale di Venezia, al registro barocco della tradizione sacra di Lecce. Le invenzioni scenografiche di Bernini trovano eco nelle Macchine dei Gigli di Nola, grandi macchine a spalla portate in processione per la festa di San Paolino, inserite dall’UNESCO nel Patrimonio orale e immateriale dell’umanità.